Ovvio pensare a Cecità, il meccanismo sembra simile: portare in luce le nostre fragilità ragionando per assurdo, modificando dettagli che poi dettagli non sono, per dimostrare quanto tutto ciò che noi chiamiamo civiltà sia qualcosa di sottile, millimetrico, seppur esteso.
In questo caso però una ironia affilata e incline all'assurdo pervade tutto il racconto, una forza satirica che ovviamente prende di mira tutti: potenti, gente comune, politici, clero, media...
Douglas Adams avrebbe amato questo romanzo. Anche lui ha scritto cose sulla morte. Saramago ha dalla sua, rispetto ad Adams, ha una sensibilità profonda anche quando sembra perdere di vista la trama stessa.
Tutto il libro sembra girare attorno al momento in cui la morte di punto in bianco smette di uccidere. La morte non c'è, effettivamente, non serve che esista come ente... La situazione in sé basta ed avanza per descrivere scenari tremendi e paradossali.
Ad un certo punto la morte si palesa in quanto essere pensante e fatto d'ossa come tradizione vuole. Da quel momento in poi la trama cambia e ci troviamo nei panni della morte stessa, ne seguiamo angosce e motivazioni, fino agli azzardi che porteranno alla fine del racconto.
Uno strano Saramago, più pungente e fumettoso, che sembra quasi strizzare l'occhio al "meaning of life" dei Monty. Come già detto, la sensibilità del grande scrittore rimane, soprattutto nella prima parte in cui dipinge un pezzo di mondo, inizialmente esaltato poi straniato e disorientato dalla improvvisa impossibilità di passare a "miglior vita".