
Vlad Circus discesa nell'oscurità dei videogiochi
Insomma.
Io mica gioco spesso. Il gioco e' forse l'attività che nel lungo periodo mi annoia di più.
Il che mi rende noioso, visto che oltretutto non ballo, bevo poco e tendo ad andare a letto presto.
Quindi di rado mi metto davanti ad un gioco, videogioco o altra roba prettamente ludica.
Poi succede che qualcosa mi attira e allora provo e quasi sempre va a finire che mi stanco.
E' una condizione che rientra nel quadro delle stranezze che mi affliggono (ad esempio, il calcio, non lo sopporto...). In ogni caso. Credo che di fondo ci sia una forma di, come dire, scala di priorità. Nel senso che le energie che ho sono limitate e le attività che ne richiedono parecchie (di energie, dico) mi devono anche sembrare di una certa utilità. Il gioco mi pare sempre una perdita di tempo.
Capiamoci: ogni cosa è per definizione una perdita di tempo, anche respirando si perde tempo.
Il problema è infatti la percezione della perdita di tempo.
Se giocassi due ore a tekken mi sentirei derubato di due ore di tempo.
Non è proprio sempre così, diciamo che il 90% delle volte va a finire così, con l'evidente eccezione del gioco di cui stiamo per parlare...
E' complicato comprendere quale sia il valore aggiunto di un videogioco rispetto ad un libro o un film. E' facile dire: l'interazione. Grazie a tutti. Sipario.
Ma chi l'ha detto che l'interazione dovrebbe migliorare l'esperienza di accesso alle suggestioni e alle idee? Questa è, secondo me, la domanda più importante che l'industria videoludica si trova a dover rispondere.
Finiti i tempi in cui il solo interagire con elementi su schermo generava sorpresa, finiti anche i tempi in cui la riproduzione di ambienti liberi e realistici faceva gridare al miracolo, mai veramente partiti i tempi del VR (e chissà se mai partiranno) ai videogiochi sembra rimanere da fare una cosa sola: Maturare.
E qui la questione si fa spinosa.
Perché in questo caso ci tocca non parlare più di FPS, di milioni di poligoni (e altra roba sempre più tecnica che sfocia nel feticismo con estrema facilità), delle mappe infinite, del costo esoso delle schede grafiche... del fattore "WOW"
E se sveliamo l'ovvio, il re che è nudo da 25 anni, ovvero che tutti i videogiochi 3A hanno essenzialmente seguito un unico motto: rendere interattivo il cinema di intrattenimento americano, istituzione in crisi creativa perenne...ecco che la gente compra meno e loro ovviamente licenziano.
Rimane forse da ripensare un po' il tutto. Ripartendo da una condizione essenziale per l'essere umano: l'urgenza di narrare.
I videogiochi dovrebbero nascere da questo tipo di necessità.
Alcuni lo fanno: alcuni sviluppatori indipendenti (mi dicono che anche un certo kojima ci provi).
Il gioco della indiesruption in questione è una avventura grafica con elementi (pochi) d'azione che racconta tanto con registri narrativi diversi e legati insieme da un filo conduttore comune: la mente del protagonista, con ricordi, paure, fobie, nevrosi e speranze.
Colorato e oscuro, browninghiano per derivazione, ironico e tragico, a tratti disperato e delicato (si parla, incredibilmente di tossicodipendenza, aborto, depressione...) tutte caratteristiche che possono essere trattate in un punta e clicca scritto bene, ma che raramente accade.
Ecco, in questo caso, accade.
Sono mesi che ho terminato il gioco ed ogni tanto ripenso ad Oliver, sfortunato personaggio principale, con l'affetto che di solito rivolgo ai personaggi di un romanzo.
Questo, credo, intendo io come "maturazione": Quando mezzo e narrazione sono la stessa cosa e si crea una connessione tra l'autore e noi che accediamo alla sua opera. E l'opera stessa poi diviene parte dei nostri ricordi.